Z’ N’donij Mirzniell.

Personaggi di Colledimezzo. Dagli Appennini alle Ande.

Lo si vede arrivare come sempre di buon passo, sorridente, affabile. Saluta tutti, stringe mani con un sorriso pieno di ottimismo e voglia di vivere. Sembra una star del cinema o della televisione capitata per caso a Colledimezzo.
E’ gentile, cordiale, scherzoso… racconta cose, accarezza bambini, rivolge un cenno a chi passa.
A un tratto ha fretta di andare.
Ti dice - con lo sguardo che vaga, che cerca la strada, il suo spazio vitale - che deve andare, deve fare la camminata. E’ in ritardo perché di solito lui parte alle sei di mattina, mica come ora che sono passate le otto e ha avuto da fare… Sì, lui deve camminare. Per ore. In solitudine. Perché nessuno può stargli dietro… la sua passeggiata quotidiana, la quale comincia alle sei di mattina e termina quasi all’ora di pranzo, dopo essere arrivato a Tornareccio e anche oltre. Mica scherza, lui!
Certo, per noi colledimezzesi è una star…
Z’n’donj Mirziell’, per l’anagrafe Antonio de Laurentiis, nato a Colledimezzo l’otto di marzo del 1910.
Proprio così, millenovecentodieci!
E’ da tempo che aspettavo il suo ritorno per farmi raccontare della sua vita lunghissima, per poterlo quindi raccontare a Voi paesani che seguite il nostro Sito.
Ormai da decenni siamo abituati a veder tornare S’ N’ndoij dalla ‘sua’ Argentina, la terra che lo accolse insieme a centinaia di migliaia di italiani, negli anni venti. Allora aveva solo diciassette anni, ma si sa che a quella età in quegli anni di miseria in cui si era costretti a diventare subito adulti, diciassette anni era appunto l’età ‘giusta’ per andar via a guadagnarsi la vita.
Era lontana l’Argentina: un mese di navigazione. Un altro emisfero.
Altre costellazioni a ricamare il cielo.
E stagioni ‘storte’, con l’inverno che arriva quando qui è estate.
E poi viceversa.
Un modo assai efficace per farti capire che sei molto, ma molto lontano da casa.
Non si ha più questa sensazione, oggi, nonostante tutto, con l’aereo che ti porta in poche ore attraverso stagioni, climi diversi e fusi orari…
Diciassette anni: proviamo a immaginare oggi un ragazzino di diciassette anni che parte per l’Argentina. Ci andrà senz’altro in vacanza, insieme a qualche suo coetaneo, a casa di qualche lontano zio, magari a Mar de Plata. Avrà scelto una nave da crociera per andarci, perché vuole stare via il più a lungo possibile, visto che può permetterselo. E’ stato promosso a scuola e i genitori benestanti lo premiano per quella promozione. E lo fanno ben volentieri perché magari è figli unico, visto il contagocce con il quale si mettono al mondo i figli, oggi.
Lo sappiamo, è tutta un’altra cosa rispetto a quando Z’ndonij e tanti altri diciassettenni-uomini partirono su quelle navi che li aspettava al porto di Napoli. Forse chi ha avuto la stessa esperienza ha maggiore pensiero per gli ‘italiani’ di oggi che vengono proprio qui, in Italia, da dove sono partiti in tanti per cercare un lavoro, per vivere meglio.
Un lavoro, e non importa quale tipo di lavoro, basta che portava pane a casa!
E così Z’Ndonij partì, lui pure, dopo tanti altri e prima di altri ancora, per un posto dove si poteva vivere una vita migliore, in cerca di un lavoro, quale che fosse stato, non importa quale, basta che portava pane a casa!
E anzi, lui per andarci, in Argentina, fece pure debito. Tremila lire. La madre se li fece prestare da una famiglia di Colledimezzo.
Tremila lire nel millenovecentoventisette, quando qui c’era la fame di cui tutti gli anziani parlano, a dispetto delle conquiste sociali mussoliniane tanto sbandierate dal regime, a dispetto dell’Italia che voleva conquistarsi la fama di grande nazione con la conquista dell’ Etiopia nel l936, quella nazione così ‘potente’ era costretta in realtà a spedire i suoi ragazzi-uomini dall’altra parte del mondo.
Per guadagnarsi da vivere!
Tremila lire era una somma considerevole che la mamma di Z’Ndonij fu costretta a fare di debito, si diceva… Pensate, fare un debito che difficilmente si poteva pagare, per mandare il figlio lontanissimo, p’ mar, oltre l’oceano, dove le stagioni erano storte e le stelle erano diverse da quelle si vedevano qui. Il telefono era merce rara. Si scriveva. Si ricevevano notizie, se le si riceveva, dopo mesi…altro che i cellulari e gli sms di oggi!
Quanta pena per i genitori! Sarete d’accordo, specie coloro che tra di voi hanno figli.
Eppure la partenza di un figlio - e questo era il peggio – doveva essere un sospiro di sollievo perchè era una bocca in meno da sfamare. Un peso in meno per la famiglia.
Dolore e speranza. Erano questi i sentimenti che si agitavano dentro coloro che restavano, così come in quelli che partivano.
‘Che sarà della mia vita chi lo sa…So far tutto o forse niente da domani si vedrà’
Sono queste le parole di una canzone bella e struggente di Josè Feliciano (guarda caso un sudamericano).
Era questo che Z’Ndonij e tanti altri come lui pensavano probabilmente mentre partivano.
“Infatti non sapevo fare nulla.”, mi dice Z’Ndonij sorridendo. Siamo seduti sulla panchina davanti al municipio, è una bella giornata di sole, pulita, senza foschia. Ammiriamo il verde rigoglioso del bosco d’ l’ cost’ Cal Cal, e di fronte, soprastanti, si muovono appena al vento tiepido le cime degli abeti d’ lu casht’ll’n’ dopo tanto freddo. Incredibile per il mese di giugno.
“Tranne che pascere le pecore e zappare non sapevo fare nulla, come gli altri ragazzi qui a Colledimezzo. Ero mezzo analfabeta. Avevo frequentato fino alla seconda elementare. Quando arrivai mi sentii perduto in quella città immensa che è Buenos Aires. Avevo un punto di riferimento, l’ indirizzo di un paesano che era della famiglia di ‘chis d’ ….. andai subito a cercarlo e mi portò in un ristorante dove il cuoco era di Roio del Sangro. Si chiamava Alessandro…”
Al nome di Alessandro il viso di Z’Nodnie s’illumina, gli occhi prendono a fissare il vuoto, l’onda dei ricordi che lo assale e lo emoziona.
“Facevo il lavapiatti e il primo giorno ruppi dieci piatti. Dovevano licenziarmi. La padrona gridò, sprezzante, ‘ma che ti ha mandato Mussolini qui?!’. Non mi licenziarono solo perché ci si mise di mezzo Alessandro. Gli avevo raccontato la mia storia, gli avevo detto che ero orfano, che mio padre era morto quando avevo dieci anni, e lui, che stava lì da trent’anni, che aveva lavorato sodo per mettersi da parte i soldi mi pagò il debito che mia madre aveva fatto a Colledimezzo. Spedii i soldi e dopo un mese mia madre mi rispose per lettera dicendo che era felicissima che in Argentina si facevano i soldi così presto. Gli rimandai una lettera in cui gli spiegavo tutto. Le dissi che ora il debito ce l’avevo io, altrochè!
Ma Alessandro mi rassicurò. Mi disse che gli avrei ridato le tremila lire quando potevo.
Gli restituii tutto dopo anni…Mi trattò sempre come un figlio. I mann’ lu bongiorn a de shtà…”
Una delle tante storie di solidarietà tra paesani che Voi che vivete all’estero avrete vissuto. Del resto spesso penso a Voi che siete andati a lavorare insieme a gente che parlava un’altra lingua. E’ stato davvero dura capire, farsi capire. Dover lavorare seguendo le direttive di chi parla una lingua straniera. Considerando che spesso in ambito lavorativo non ci si comprende neppure parlando la stessa lingua!
“Passarono gli anni e i piatti non li ruppi più, anche perché non li lavavo più io… ero diventato dapprima aiuto cuoco, poi cuoco, infine chef… ho lavorato per le famiglie più ricche di Buenos Aires, ho imparato a sperimentare sempre nuovi piatti, con tutto il tempo che avevo a disposizione, nonostante uscissi spesso, perché ero giovane e Buenos Aires era una città bellissima, incredibile per me che venivo da Colledimezzo, la Colledimezzo degli anni venti, s’intende! Buenos Aires era un sogno per me, sembrava di sognare…piena di luci, la notte c’era tanta gente per le strade. C’erano sale da ballo grandissime, e tutte quelle donne meravigliose che ballavano il tango…Fino alla mattina dopo. Ero stordito da tanta vita, da tanta allegria, tanto benessere. Mentre in Italia c’era la fame nera! Come era possibile? Pensavo che presto in Italia non ci sarebbe stato più nessuno e che tutti sarebbero venuti in Argentina, come difatti è avvenuto negli anni che sono seguiti… anche se in Italia meno male che molti hanno avuto la forza di resistere e rimanere…”
Faccio alzare Z’Ndonij dalla panchina, solo per un attimo, il tempo di fargli delle foto con la digitale. Si mette in posa sotto le bandiere del municipio, appoggiato sul bastone di cui non ha bisogno per camminare, ma si porta dietro perché durante le sue passeggiate non si sa chi puoi incontrare, dice. Lo inquadro. E’ un vecchio signore ( se leggesse questo ‘vecchio’ mi facess’ nu cazziataon!) elegante nei modi e nei movimenti.
Si risiede e riprende a raccontare.
“Ho speso molti soldi prima che mi sposassi con mia moglie Lucia, un donna buonissima, che mi ha compreso sempre, che ha rispettato il mio amore per Colledimezzo lasciandomi tornare qui spesso e per mesi e mesi… siamo stati settanta anni insieme… ho avuto tre figli, due maschi e una femmina…”
E mentre dice questo gli occhi di Z’Ndonij si chiudono di colpo. La voce si spezza. C’è un silenzio che il rombo di un’automobile di passaggio interrompe…poi la sua voce riprende, i suoi occhi si riaprono lentamente come riemergessero da una visione dolorosa…
“Ho perso un figlio che aveva trent’anni. Un infarto…”
La perdita di un figlio. Il Dolore Supremo.
Sarà forse questo che ha reso Z’Ndonij così… diciamolo…Buono, gentile, affabile?
E’ il Dolore, quello che rende gli uomini migliori. Il Dolore che lava l’odio e le cattiverie. Che fa vedere la vita per quella che è….n’affacciat’ d’ f’neshtr’…e te ne rivela il senso vero, che ti fa amare le cose vere, a rispettare le persone…?
Chissà…
Una cosa però è certa. Vorremmo che le persone che s’incontrano nella vita fossero tutte come lui. Non è facile. Però se alla mattina presto fate una passeggiata verso Tornareccio, oppure oltre, sicuramente lo incontrerete.
E con tanto piacere.
Questo ragazzo di novantasei anni che sa sorridere e sa scherzare come pochi.
Augur’ p’ cent’ann’ ancaor’ Z’Ndò!

Camillo Carrea